Si chiama “Rapporto Ombra” e fotografa la condizione delle donne in Italia in base alla Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (Cedaw), adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 1979 e ratificata dall’Italia nel 1985. La Convenzione è il trattato internazionale di riferimento sui diritti delle donne per garantire pari opportunità in ambito sia pubblico che privato. Ogni quattro anni gli Stati firmatari devono presentare un rapporto sui risultati richiesti dalla Cedaw. Ma anche la società civile può redigire parallelamente un proprio rapporto, il cosiddetto “Rapporto Ombra”, per fornire al Comitato Cedaw una propria analisi della condizione delle donne nel proprio paese.
Dopo aver esaminato il Rapporto governativo e il Rapporto Ombra, il Comitato, composto da 23 esperti di tutto il mondo, formula le proprie raccomandazioni allo Stato che è tenuto a risponderne. Il “Rapporto Ombra” ha ricevuto l’adesione di più di 140 organizzazioni italiane. Il 3 agosto 2011 il Comitato Cedaw ha pubblicato le sue valutazioni sull’impegno dell’Italia nella tutela e nella promozione dei diritti delle donne e ha rivolto al Governo una serie di raccomandazioni per migliorare il suo operato, prendendo in considerazione le preoccupazioni sollevate dalla piattaforma “Lavori in Corsa: 30 anni Cedaw”, costituita da diverse realtà della società civile. Il rapporto spazia su tutti i temi della condizione femminile ricalcando gli ariticoli della Convenzione per sottolinearne il mancato rispetto nel nostro paese. Lavoro, maternità, cittadinanza, pensioni, ruolo delle donne nei media sono alcuni dei settori analizzati.
La pensione delle donne resta mediamente più bassa del 30,5% rispetto a quella degli uomini: gli uomini rappresentano il 47% dei pensionati ma incassano il 56% del “monte pensioni”: in media 17.137 euro rispetto agli 11.906 euro delle donne. La situazione peggiora ulteriormente per le donne che lavorano con la partita IVA perché non hanno tutele minime in materia di maternità, e nessuna protezione per quanto riguarda la cura dei figli piccoli o di familiari non autosufficienti.
In televisione e nella pubblicità le donne sono ancora oggi in prevalenza raffigurate come oggetti sessuali o brave mamme di famiglia. Il corpo delle donne, nudo o seminudo, viene utilizzato per vendere qualsiasi tipo di prodotto con immagini che calpestano ed umiliano la dignità della donna. “È ancor più preoccupante come nella comunicazione pubblicitaria sembra non esserci alcuna differenza tra una donna e una bambina: alla bambina vengono riproposti gli stessi ruoli stereotipati interpretati e subiti da una donna adulta: deve essere sexy, ammiccante, avvenente o giocare il ruolo di ‘mamma’, mentre i maschietti devono essere forti, coraggiosi, intraprendenti e non emotivi” sottolinea il rapporto. Per il ruolo delle donne nei media, si ritrovano gli stessi stereotipi: il Censis registra che il 53% delle donne che appaiono in televisione non ha voce, il 43% delle donne è associato a temi come sesso, moda, spettacolo e bellezza, e solo nel 2% dei casi ai temi di impegno sociale e professionalità.
In Parlamento soltanto il 20% dei deputati e dei senatori è donna, registrando una delle percentuali più basse in Europa e nel mondo e configurando una “carenza di democrazia”. Nei Consigli regionali di Calabria e Basilicata non è stata eletta nessuna donna, nella Giunta regionale siciliana, su 12 assessori solo 1 è donna. “Per rimediare a questa grave violazione l’unica soluzione possibile è il ricorso al Tribunale amministrativo regionale (Tar) perché dichiari l’illegittimità delle Giunte che non rispettano criteri di rappresentanza di genere – dice il rapporto - Tuttavia, neanche questo strumento si è rivelato adeguato a tutelare effettivamente il diritto alla rappresentanza delle donne, perché i vari Tar seguono orientamenti diversi, determinando una ulteriore disparità tra le donne appartenenti a Regioni diverse.
Sempre in tema di diritti civili, per le donne straniere è un problema anche il meccanismo di acquisizione della cittadinanza per matrimonio o per residenza. Nel primo caso possono passare da 1 fino a 4 anni prima che venga ufficialmente riconosciuto tale diritto, “a condizione che la posizione coniugaledella donna non cambi, perché in caso di divorzio o separazione, la sua richiesta viene rigettata”.
Secondo il rapporto, “ i tempi particolarmente lunghi di questa procedura rendono la donna dipendente dal marito nel periodo di attesa della sua richiesta, esponendola quindi a un ricatto da parte del marito in diversi casi”. Per le donne straniere che lavorano, il percorso di acquisizione del permesso di soggiorno e della cittadinanza risulta particolarmente difficile data la loro situazione caratterizzata dalla mancanza di contratti di lavoro regolari, da un’estrema precarietà e da redditi molto bassi. Anche questa situazione pone le donne straniere sotto l’autorità dei datori di lavoro (o dei mariti), rendendole facilmente ricattabili e ostacolando il loro percorso di integrazione nella società.
Sui temi del lavoro e dell’istruzione, la situazione appare discriminatoria anche per le donne italiane. All’Università si iscrivono donne in prevalenza, ottengono i voti migliori, si laureano in minor tempo, tuttavia continuano ad affrontare enormi difficoltà di accesso al mondo del lavoro universitario e i tagli della riforma Gelmini saranno un ulteriore ostacolo. Le studentesse rappresentano il 58% dei laureati, ma le ricercatrici universitarie sono il 40%, le professoresse associate il 32%, le ordinarie solo il 14% e sono 2 le uniche donne rettore in tutta Italia. Anche la “fuga dei cervelli” si tinge prevalentemente di rosa: “ è ancora diffuso lo stereotipo e l’idea ingiusta che non valga la pena investire nella formazione e attribuire fondi per la ricerca a chi poi un giorno diventerà madre e dovrà occuparsi anche del lavoro di cura togliendo tempo alla ricerca” sottolinea il rapporto.
Una donna su due non cerca lavoro, e nelle Regioni del Sud il tasso raggiunge picchi del 63%. Spesso o assorbite come forza lavoro dal mercato nero, a discapito dei propri diritti, o restano a casa. Le cause della difficoltà per le donne ad inserirsi e mantenere il lavoro sono molteplici. Spesso sono la maternità oppure l’accudimento di membri della famiglia disabili, malati permanenti o molto anziani. Per esempio, in Italia oltre un quarto delle donne occupate abbandona il lavoro dopo la maternità: solo nel 2010 per questo motivo 800 mila donne sono uscite dal mercato del lavoro. Una delle cause è la difficoltà di passare in azienda da un lavoro full time a uno part time. Infine c’è il problema delle ‘dimissioni in bianco’, una pratica usata dai datori di lavoro per licenziare le lavoratrici in maternità. Per porvi fine, nel 2007 il Parlamento italiano aveva approvato una legge in base a una direttiva europea. Ma il provvedimento è stato abrogato con un decreto legge del Governo Berlusconi nel giugno del 2008.